È un prodotto della Basilicata, oggi riconosciuto come prodotto agroalimentare tradizionale (PAT): quando il gusto piccante incontra la dolcezza.
Crusco perché è croccante, mai brusco né fusco: sembra uno scioglilingua, ma in realtà è la metrica di degustazione di un prodotto unico nel suo genere, impiegato in origine nella cucina lucana e calabrese, per poi contaminare il mondo. Non di piccantezza, come il peperoncino ci fa in genere pensare, ma di dolcezza. Perché questo peperone dal colore rosso e intenso non è piccante come le varietà che abitualmente conosciamo, ma è dolce. Ed è questa caratteristica a renderlo unico, così come le forme, di piccole dimensioni, appuntite, a uncino o a tronco.
Simpatico e scaramantico verrebbe a dire ma, in realtà, consumato da solo come chips piuttosto che unito per arricchire di aromi e di colore arrosti, grigliate, pesce o zuppe di legumi, riesce a rendere ogni piatto particolare.
Dove viene allevato e la sua storia
Cresce nella zona del Pollino ed è conosciuto come peperone di Senise. Probabilmente è originario delle Antille e dobbiamo rendere merito a Cristoforo Colombo per averlo importato nel nostro Paese. Fu un medico al seguito dell’esploratore, tale Chanca di Siviglia, a scoprirlo, rimanendone folgorato per l’insolito gusto. La sua diffusione in Italia sembra risalire al 1600 e, ancora oggi, la lavorazione e la conservazione non sono cambiate. Viene seminato in primavera, ed è maturo ai primi di agosto. La raccolta prevede che i peperoni vengano disposti su teli per una prima fase di asciugatura, affinché perdano un po’ della loro componente liquida. Vengono poi legati con dello spago formando delle collane, dette sarte, di dimensioni variabili, che possono anche raggiungere una lunghezza di 2 metri. Queste collane vengono appese in locali areati in modo che possa essere completato il processo di essicazione. Il disciplinare IGP consente comunque un passaggio in forno durante la loro produzione. È conosciuto localmente con molti nomi, da paparulë a pëpërussë, da pupavërë crušchë a źafaranë crušchë: anche il naming e le diverse espressioni dialettali testimoniano le sue origini, rintracciabili nelle mille contrade lucane che ne fanno un motivo di vanto e di orgoglio. L’aggettivo crusco non è legato ad una varietà, ma rimanda alla crosta forse del pane o di un dolce biscottato dall’evidente croccantezza.
La lavorazione
È con la frittura che il peperone diventerà croccante, ovvero crusco. Privato del picciolo, che si mantiene a lungo sul corpo del peperone nonostante l’essiccazione, viene privato dei semi e scottato leggermente in olio bollente per pochi secondi. La frittura dopo l’essiccazione regala una croccantezza inconfondibile, al punto tale da renderlo immediatamente degustabile come snack. La sua conservazione avviene in sacchetti di carta o in barattoli di vetro. È possibile anche trovarlo in polvere finissima, utilizzabile come spezia per arricchire le diverse preparazioni. Esistono inoltre alcune linee di cioccolato che prevedono l’addizione di peperone crusco nel fondente, naturalmente per i più golosi. Una metafora della vita, un po’ piccante e un po’ dolce, dal piacere inaspettato che, dalle tavole contadine, è oggi un ingrediente ricercato e richiesto dagli chef più acclarati. Crusco ma non offusco: solo per assonanza, magari da provare con il Lambrusco, naturalmente fuori regione.